Veronica Boldrin
Nel secondo appuntamento con Silvia Brena - sull’esplorazione e analisi di alcune parole chiave per il mondo della comunicazione - a cura di Veronica Boldrin, oggi facciamo un viaggio affascinante attraverso il significato della parola 'verità', tra etimologia, filosofia e attualità.
La verità è un concetto tanto antico quanto sfuggente, un’idea che ha attraversato i secoli mutando forma e significato a seconda del contesto storico, sociale e culturale. Oggi, più che mai, questo termine è al centro del dibattito pubblico: in un’epoca segnata dalla disinformazione, dalla polarizzazione e dalla diffusione incontrollata di contenuti sui social media, è ancora possibile parlare di una verità oggettiva? O siamo condannati a una realtà frammentata, dove ogni versione dei fatti diventa una narrazione personale?
Il problema delle fake news ha reso ancora più complesso il rapporto tra verità e percezione: studi recenti dimostrano che le notizie false si diffondono sui social media a una velocità sei volte superiore rispetto a quelle verificate, generando bolle informative e rafforzando convinzioni distorte. La verità, dunque, non è solo un concetto filosofico, ma una questione di responsabilità sociale e comunicativa.
Silvia Brena, giornalista e autrice del libro Parole in tempesta, ci guida in un viaggio affascinante attraverso il significato della parola “verità”, tra etimologia, filosofia e attualità. Partendo dalle radici linguistiche fino alle sfide contemporanee della comunicazione, esplora nell’intervista il rapporto tra verità, manipolazione e responsabilità etica. Delineando, in un mondo in cui la tecnologia e l’intelligenza artificiale stanno ridefinendo il modo in cui accediamo alle informazioni, il ruolo cruciale dei comunicatori.
Silvia, cosa significa “verità”? E soprattutto, esiste una verità assoluta nella comunicazione o è sempre un costrutto soggettivo?
Il concetto di verità, soprattutto per chi comunica e deve garantire l'autenticità delle parole che utilizza nei confronti dei propri interlocutori, è fondamentale. L'etimologia della parola ci offre già un primo spunto di riflessione: in latino, veritas significa "ciò che è reale", da cui deriva l'idea di aderenza alla realtà, un principio che abbiamo poi trasposto nella costruzione semantica della parola stessa.
Se invece guardiamo al greco, il termine ἀλήθεια (aletheia), si traduce letteralmente come "disvelamento" o "rivelazione", ovvero il processo di rendere evidente ciò che è nascosto. Ma come possiamo oggi rendere evidente ciò che è nascosto? E siamo davvero sicuri di volerlo fare?
Viviamo in un'epoca segnata da una forte polarizzazione, in gran parte alimentata dai social media. La cifra di comunicazione più diffusa oggi, favorita dai social, è quella di raccontare la propria verità e far sì che questa narrazione diventi una sorta di certezza assoluta, spesso contrapposta a quella degli altri. In questo contesto, la verità non è più un concetto assoluto, ma qualcosa che viene modellato e interpretato in base alle proprie convinzioni e alla propria prospettiva.
In un’epoca in cui la percezione della realtà è spesso mediata dai media e dai social, quanto è difficile per un comunicatore trasmettere una verità autentica?
Questa è una sfida complessa per chi si occupa di comunicazione. Per affrontare questa difficoltà dovremmo riscoprire un concetto della tradizione greca: la parresia, ovvero il coraggio della franchezza. I greci consideravano questa virtù come una delle più nobili dell’uomo, poiché implicava la capacità di dire la verità apertamente, senza paura delle conseguenze.
Nel mio libro cito diversi aneddoti che aiutano a comprendere la fatica di comunicare in un’epoca come la nostra. Uno di questi riguarda la storia di un celebre rabbino cabalista vissuto a Praga alla fine del Cinquecento: Rabbi Loew. In un periodo in cui gli ebrei erano confinati nei primi ghetti ed erano già oggetto di persecuzioni, egli creò la leggenda del Golem.
Il Golem era un gigante di argilla a cui il rabbino infuse la vita affinché proteggesse gli ebrei dagli attacchi dei cittadini cristiani di Praga. Per animarlo, incise sulla sua fronte la parola Emet, che in ebraico significa "verità". Tuttavia, quando il Golem ebbe terminato il suo compito e dovette essere disattivato, il rabbino cancellò la prima lettera, trasformando Emet in Met, che significa "morte". Così il Golem si dissolse.
Ciò che questa storia ci insegna è che la scomparsa della verità porta alla dissoluzione, alla fine di qualcosa di vitale. Oggi più che mai, stabilire la verità è uno dei compiti più complessi e fondamentali per chi comunica.
Esiste una responsabilità etica dei comunicatori nel veicolare messaggi veritieri?
Sì, senza dubbio. È fondamentale recuperare il concetto di aderenza a una verità che non sia soltanto soggettiva, ovvero basata sulle proprie esperienze personali, ma che abbia anche un fondamento oggettivo. Tuttavia, nell’era dei social media, tutto ciò diventa estremamente complesso.
Un esempio recente ci mostra quanto questo problema sia attuale. Poche settimane fa, Meta ha annunciato di aver significativamente ridotto le sue attività di fact-checking. Non ha completamente eliminato il processo, ma lo ha comunque limitato in modo considerevole, riducendo il ruolo e l’efficacia dei fact-checker. Questo ha un impatto devastante, poiché in un contesto già saturo di disinformazione, la riduzione dei controlli sulla verità rischia di alimentare ulteriormente la diffusione di notizie false o distorte. Le fake news si diffondono inoltre con straordinaria efficacia e pervasività, spesso oscurando la verità.
Uno studio recente della Carnegie Mellon University ha dimostrato che le fake news viaggiano sei volte più velocemente rispetto alle notizie verificate. Numerosi esempi lo confermano: basti pensare che nel primo quadrimestre del 2020, il 45% dei tweet sul COVID-19 era generato da bot e quindi basato su informazioni false. E non si tratta di un caso isolato.
Un altro studio, recentemente pubblicato da Vox Diritti – associazione che ho contribuito a fondare – in collaborazione con l’Università di Milano e l’Università di Bari, ha dimostrato in modo inequivocabile il ruolo dei bot e dei troll nella costruzione del discorso d’odio e nella diffusione di fake news. Tutto ciò si chiama manipolazione.
Lo ha reso evidente un esperimento del 2012: senza informare gli utenti, i data scientist di Facebook alterarono i contenuti mostrati a circa 700.000 persone: a un gruppo venivano proposti post e notizie particolarmente felici, a un altro contenuti negativi o tristi. I risultati furono sorprendenti: chi visualizzava contenuti negativi tendeva a pubblicare a sua volta post negativi, mentre chi era esposto a contenuti positivi condivideva messaggi più ottimistici. I ricercatori di Facebook conclusero che gli stati emotivi si possono trasferire per contagio, influenzando inconsapevolmente le emozioni delle persone. Questo ci fa capire quanto sia fondamentale oggi il contributo di chi si occupa di comunicazione e media non solo nella diffusione della verità, ma anche nel mantenere un equilibrio sociale, perché sappiamo infatti che la polarizzazione creata da questi meccanismi alimenta tensioni e conflitti, rinforzando stereotipi e pregiudizi.
Lo ha sottolineato anche il filosofo francese Bernard-Henri Lévy, definendo il fenomeno delle fake news come un fenomeno irreversibile e parlando di “una profusione oscura e assordante” in cui si sono trasformati i social network e di “uno scenario in cui la verità di ognuno vale quanto quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi per poterla far trionfare”.
L’AI generativa sta rivoluzionando la creazione e la diffusione delle informazioni. Quali rischi vedi nell’uso dell’AI per la comunicazione?
Uno degli aspetti più critici riguarda l’alterazione della realtà, resa oggi ancora più sofisticata dai nuovi strumenti tecnologici. Se consideriamo i giovani, in particolare la Gen Z, emerge un aspetto preoccupante: l’accesso alle fonti è diventato quasi un optional. Molti ragazzi confrontano poche fonti, spesso senza arrivare a quelle primarie, e costruiscono la loro percezione della realtà basandosi quasi esclusivamente sui contenuti che trovano sui social media.
A questo si aggiunge un altro fenomeno ben studiato dagli psicologi: la dissonanza cognitiva. Si tratta di un meccanismo di autodifesa della mente umana, per cui tendiamo a ignorare le informazioni che contraddicono le nostre convinzioni. Il motivo? Proviamo un forte disagio psicologico quando siamo costretti a confrontarci con realtà che mettono in discussione ciò in cui crediamo. Questo fenomeno è stato descritto per la prima volta negli anni ’50 dallo psicologo americano Leon Festinger, che studiò il comportamento di una setta apocalittica di Chicago. I membri della setta erano convinti che la fine del mondo fosse imminente, ma quando la profezia non si avverò, invece di abbandonare le loro credenze, le rafforzarono ancora di più.
In questo scenario, districarsi tra verità e manipolazione diventa sempre più difficile. Ecco perché il dibattito sull’etica dell’AI è cruciale, e perché è necessario regolamentarne l’uso e definire i limiti entro cui dovrebbe operare.
Pensi che strumenti come ChatGPT e altri modelli di linguaggio possano minacciare il concetto stesso di verità? Oppure possono essere utilizzati per rafforzarlo?
Qui è importante fare una premessa: il linguaggio umano funziona attraverso l’associazione di un contenuto mentale a un’espressione, creando così costrutti di senso per associazione. Al contrario, i Large Language Models (LLM), che sono alla base dell’intelligenza artificiale generativa, generano testi prevedendo le parole nelle frasi indipendentemente dal loro significato. Mi spiego: per prevedere le parole di una frase, il Large Language Models valuta la probabilità che le parole compaiano in sequenza o prossimità e lo fa sulla base di una miriade di dati che può andare a verificare in tempo reale. Ma tutto questo è molto lontano dalla verità. La costruzione del senso, quindi, è uno dei primi elementi che dobbiamo considerare quando parliamo di verità, perché ci dà la possibilità di certificare in qualche modo la correttezza delle affermazioni e il fatto che esse derivano da un processo umano e non sono create dall’intelligenza artificiale.
C’è il rischio che l’AI renda più difficile distinguere tra contenuti reali e manipolati. Come possiamo difenderci da questa sfida?
La legge entrata in vigore nel marzo 2024, l’Artificial Intelligence Act, rappresenta un passo significativo nel tentativo di regolamentare l’uso dell’intelligenza artificiale all’interno dell’Unione Europea. Questo nuovo regolamento impone agli Stati di effettuare una valutazione preliminare sulla conformità dei sistemi di AI ad alto rischio rispetto ai diritti fondamentali, perché questa mancanza di rispetto della verità impatta direttamente con il rispetto dei diritti di tutti.
L’AI Act introduce alcuni principi fondamentali che possono risultare utili anche per chi si occupa di comunicazione, offrendo strumenti per contrastare la disinformazione e costruire una narrazione alternativa più trasparente e affidabile. Uno dei principi chiave è quello dello Human Oversight, ovvero la necessità che ci sia sempre uno sguardo umano sui contenuti generati dall’AI. Questo ci riporta al tema del fact-checking, che non si limita alla verifica delle fonti, ma include anche la ricostruzione, risemantizzazione del senso e la contestualizzazione delle informazioni.
Un altro principio essenziale dell’AI Act è il Right to Know, ossia il diritto degli utenti di conoscere non solo i contenuti prodotti dall’intelligenza artificiale, ma anche il funzionamento dei sistemi che li generano. Qui stiamo chiaramente parlando di trasparenza, che significa dare alle persone gli strumenti per comprendere quando e come l’AI interviene nella produzione di informazioni, permettendo loro di sviluppare un senso critico nei confronti di ciò che leggono e condividono. Solo attraverso regole chiare e un maggiore controllo umano sarà possibile mitigare i rischi di manipolazione e rendere la comunicazione più affidabile e responsabile.
Il concetto di trasparenza appena accennato si collega inoltre a un altro aspetto essenziale, che può essere visto come un antidoto alla manipolazione dell’informazione: la prossimità. Prossimità significa andare a vedere di persona, essere testimoni diretti di ciò che si racconta. Nasce spontanea una riflessione sullo stato attuale dei media e sulle difficoltà dell’editoria, che hanno portato alla drastica riduzione delle risorse e alla conseguente limitazione del lavoro degli inviati sul campo. Questo è un problema enorme, perché la verifica diretta dei fatti da parte di professionisti con un codice deontologico e un obbligo di rispetto della verità, sarebbe già di per sé una garanzia importante.
La scorsa volta abbiamo parlato delle parole ponte, ovvero quei lemmi che aiutano a definire il senso di concetti chiave. Quali sono le parole ponte di “verità”?
Oltre a trasparenza, altra importante parola ponte è onestà. Essere onesti nella comunicazione significa non solo rispettare principi etici, ma anche impegnarsi a rappresentare nel modo più veritiero possibile ciò che ci viene affidato, sia dai clienti nel mondo della comunicazione d’impresa, sia come testimoni diretti di un fatto. Per essere davvero onesti è necessario conoscere la storia dell’altro. Più siamo in grado di comprendere narrazioni diverse dalla nostra, più saremo capaci di costruire una comunicazione autentica e rispettosa.
Oggi non esiste una verità assoluta. La verità è sempre contestualizzata. Tuttavia, non dobbiamo cedere alla polarizzazione estrema che trasforma ogni percezione soggettiva in una verità oggettiva. L’autenticità della verità non sta nell’imporre un punto di vista come unico e indiscutibile, ma nel confronto, nella verifica costante e nel rispetto delle fonti. È in questo equilibrio che si gioca la responsabilità di chi comunica.
Nel giornalismo e nella comunicazione d’impresa, la verità è spesso influenzata da interessi economici e politici. Hai qualche suggerimento che possa aiutare a bilanciare trasparenza e obiettivi aziendali?
Possiamo lavorare su cinque elementi. Primo, distinguere sempre, evidenziandole, le opinioni dai fatti e quindi dalle informazioni, essenziale anche in un’epoca in cui la narrazione e lo storytelling sono diventati strumenti dominanti.
Secondo, cercare fonti diverse e attenersi al racconto di più fonti confrontandole. Adottare la prospettiva dell’altro aiuta a non cadere nella trappola di una verità dogmatica, che spesso è solo la nostra. Confrontarsi con più punti di vista permette di arrivare a una rappresentazione della realtà il più possibile vicina a ciò che davvero accade.
Terzo, sembrando banale, fornire sempre le fonti da cui si è ricavata la notizia.
Quarto, attenersi e riscoprire la regola base del giornalismo, quella delle 5W (chi? cosa? dove? quando? perché?) ovvero uno strumento essenziale per chiunque si occupi di comunicazione. Le 5W permettono di ancorare il racconto a una dimensione spazio-temporale concreta e verificabile, dando al pubblico la possibilità di distinguere tra informazioni reali e interpretazioni soggettive, fornendo quindi un servizio al nostro interlocutore. Gabriel García Márquez, premio Nobel per la letteratura, diceva sempre ai suoi studenti di scrittura creativa: “Se dico che gli elefanti volano, nessuno mi crede. Ma se dico che 540 elefanti stanno volando, tutti alzano lo sguardo al cielo”. La contestualizzazione e la precisione sono ciò che rende credibile un’informazione.
Quinto e ultimo, fornire dati di contesto, essenziale per comprendere il quadro più ampio in cui si colloca un’informazione e per verificarne l’attendibilità.
Quale ruolo giocano i fact-checker nella costruzione della verità mediatica? Possono davvero arginare la disinformazione?
Il fact-checking è un’attività che ciascuno di noi dovrebbe svolgere, a maggior ragione chi fa il giornalista o si occupa di comunicazione. Verificare le informazioni è un servizio essenziale che offriamo ai nostri interlocutori, ai lettori, agli spettatori, contribuendo a garantire un’informazione più trasparente e affidabile. Questo dovrebbe diventare un principio cardine di una carta deontologica condivisa da tutti i professionisti della comunicazione.
Oggi si parla molto di "verità percepita" e di storytelling aziendale. Come si può costruire un racconto autentico senza cadere nella propaganda?
Quando si costruisce un racconto aziendale, il tema della verità è centrale: quanto una narrazione è realmente rispettosa del contesto e dei fatti e quanto, invece, rischia di trasformarsi in propaganda? La risposta dipende dalla professionalità e dall’etica di chi comunica. Non è vero che una verità distorta o manipolata passi inosservata: il pubblico percepisce l’inautenticità e spesso la rifiuta.
Numerosi esempi dimostrano come campagne di comunicazione abbiano fallito non solo perché incapaci di intercettare i bisogni del target o di costruire un racconto efficace, ma anche perché l’elemento di inautenticità era evidente. Non si tratta semplicemente di creare un messaggio verosimile, ma di costruire una narrazione che abbia una reale adesione ai fatti.
C’è un antidoto alla crisi della verità? Come possiamo, come società, riappropriarci di una narrazione autentica e condivisa?
Per affrontare la questione della verità, può essere interessante osservare come, attraverso le interviste, gli incontri e le voci che ho ascoltato, questo lemma sia stato riformulato. Ciò che emerge è una definizione più ampia e profonda di verità, che ci offre una chiave di lettura su come possiamo muoverci in questo campo complesso.
La verità è, prima di tutto, la capacità di adottare il punto di vista dell’altro. È un’urgenza vitale che risponde alla domanda “chi siamo?”. È anche il risultato di un processo collettivo, in cui il dialogo e il confronto generano una verità costruita su esperienze e storie condivise.
Oggi, di fronte ai rischi posti dall’intelligenza artificiale e dal panorama dei social media, in cui la distorsione della realtà e la manipolazione delle informazioni sono sempre più diffuse, questa consapevolezza diventa ancora più cruciale. Recuperare una narrazione autentica e condivisa significa riscoprire il valore dell’incontro, del confronto e dell’onestà nel racconto, elementi indispensabili per dare alla verità una base solida e riconoscibile.