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Imprese e sostenibilità: un ossimoro?

16/11/2011

Le regole del business sono ormai completamente cambiate: la sostenibilità è sempre più al centro degli interessi degli stakeholder, a partire proprio dalle piccole e medie imprese. Ma deve trattarsi di vera responsabilità sociale e non mero greenwashing. Ma sostenibilità e imprese non sono inconciliabili, anzi la green economy è un asset strategico. L’analisi di _Giampietro Vecchiato._

di Giampietro Vecchiato
“Siete pronti per la nuova era di responsabilità a 360°? Non è più sufficiente che facciate bene il vostro lavoro, che soddisfiate i clienti e che produciate buoni risultati finanziari. In futuro sarete ritenuti responsabili degli input che utilizzate e dalla loro origine, di quello che i vostri clienti faranno di ciò che hanno acquistato, di quanto ne avrete migliorato la vita e dei costi e dei benefici che ne derivano al Paese e alle comunità che ne vengono interessate. Le aziende e i loro leader saranno sempre più valutati non solo per i risultati immediati, ma per l’impatto a lungo termine, e cioè sugli effetti che alla fine le loro azioni vengono ad avere sul benessere sociale.”
(Rosabeth Moss Kanter, Harvard Business Review, ottobre 2010)
Oggi i consumatori vogliono sapere tutto delle aziende: se e quanto inquinano, se rispettano gli interessi degli stakeholder e tutti gli altri impatti sul mondo esterno. E questo ha ormai cambiato per sempre le regole del fare business.
Il periodo che stiamo attraversando è particolare, unico per molti aspetti.
Chi vi parla, se da un lato è consapevole della situazione di difficoltà economica e di crisi che caratterizza l’economia mondiale; dall’altro è anche convinto di vivere una fase di transizione stimolante, perché ricca di rinnovamento, di rigenerazione, di nuove idee e progetti per il futuro.
Nel turbinio di informazioni che ci bombardano ogni giorno è opportuno però ricordarne alcune, segnali inequivocabili del tempo che cambia, di un vento nuovo, probabilmente di una nuova era.
Gli ultimi tre anni sono stati segnati da eventi sia negativi che positivi.
Tra i primi ricordiamo il “quasi” fallito accordo sul clima di Copenaghen, il disastro ambientale causato dalla BP negli USA e l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima in Giappone. Tra quelli positivi ricordiamo la fine della storica lampadina a incandescenza, la cessata produzione dei gas refrigeranti colpevoli di contribuire alla distruzione dell’ozono stratosferico e all’effetto serra e la Dichiarazione di Parma del 2010 (Potenziamento dei sistemi e servizi sanitari, di welfare sociale e ambientali), le nuove linee guida per la ISO 26000 sulla CSR e la nuova definizione di CSR da parte della Commissione Europea (ottobre 2010).
Sono ormai numerose le ricerche e le indagini che evidenziano come tematiche ambientali quali l’inquinamento, i cambiamenti climatici e la gestione dei rifiuti siano tematiche top of mind anche in un periodo di crisi economica, a conferma di una maggiore consapevolezza dell’importanza del perseguimento di uno sviluppo più sostenibile.
Anche l’ISTAT, nel suo tradizionale rapporto annuale sull’Italia relativo al 2009, ha dedicato per la prima volta uno specifico capitolo alla sostenibilità, con un approfondimento specifico sulla “dimensione ambientale” per le sue “strette interconnessioni con la dimensione economica”.
Una consapevolezza quindi in crescita a vari livelli, che sembra essere in grado di cambiare stili di vita e di consumo, tant’è che sempre nel 2009 per la prima volta la Commissione Europea e il comparto della distribuzione hanno lanciato un forum per “ridurre l’impatto ambientale del comparto della distribuzione e delle relative catene di approvvigionamento, promuovere prodotti più sostenibili e informare meglio i consumatori sulle possibilità di acquistare prodotti ecologici.”
Per questi ed altri motivi oggi si parla sempre più di “Green Economy” e sta aumentando la corsa a proporre e promuovere prodotti “ecologici”, a valutarne “l’impronta ecologica” per poter poi costruire claims ambientali. Si pensi, ad esempio, al settore delle automobili, dove non manca spot pubblicitario che non dichiari, oltre al prezzo e agli optional, anche la quantità di anidride carbonica
emessa.
Se, da un lato, le istituzioni pubbliche attraverso strategie e politiche potranno favorire lo sviluppo della green economy e stimolare la produzione di prodotti ecocompatibili; dall’altro, la comunicazione dovrà saper essere di sostegno a prodotti e ad aziende realmente “green”. Il mercato avrà quindi bisogno di claim (dichiarazioni, etichette, marchi, ecc.), accurate e verificabili, che diano effettivamente maggiori opportunità ai consumatori e utilizzatori di prodotti/servizi di fare scelte informate e consapevoli. Allo stesso tempo, le asserzioni ambientali devono essere in grado di trasferire con efficacia il reale valore ambientale di quel prodotto (es: la biodegradabilità, la % di riciclabilità, la provenienza da aree gestite in maniera sostenibile, ecc).
Se è vero che le rivoluzioni partono dal basso e i cambiamenti avvengono a poco a poco, cominciando dal locale per poi espandersi al globale, la crescita della green economy deve senz’altro ringraziare l’impegno e l’attenzione dimostrata dalle piccole e medie imprese italiane: lo conferma un’indagine (2010) di Fondazione Impresa su 600 piccole imprese manifatturiere in Italia, che ha analizzato l’adozione di soluzioni eco all’interno delle strategie aziendali.
Ne è emerso che “un’impresa su tre ha introdotto negli ultimi due anni tecnologie finalizzate alla riduzione dell’impatto ambientale, con una prevalenza nelle regioni del centro (35,3%), seguite da quelle del nord ovest e del sud (32,7%) e, ultime, del nord est (31,3%): “È virtuosa la relazione sviluppatasi tra piccola impresa e green economy. Le piccole imprese italiane, infatti, sembrano pronte a contribuire alla sfida della crescita sostenibile lanciata dall’Unione Europea nella Strategia Europa 2020; sembrano pronte, cioè, a contribuire alla costruzione di un’economia a basse emissioni di CO2”, commentano i ricercatori di Fondazione Impresa.
Nel dettaglio, la sostenibilità ambientale è stata perseguita attraverso l’acquisto di macchinari a basso consumo (27,3%), la riduzione degli imballaggi o l’utilizzo di materiali riciclati (25,8%) e l’installazione di pannelli fotovoltaici (19,2%). Seguono la riqualificazione energetica degli edifici (18,7%) e introduzione di sistemi di gestione ambientale (16,7%). L’utilizzo del fotovoltaico sembra inoltre essere la soluzione preferita, probabilmente in relazione anche ai nuovi incentivi, per le prossime azioni sostenibili delle PMI: 1 azienda su 3 ha infatti dichiarato di voler provvedere nei prossimi 2 anni all’adozione di tecnologie a basso impatto ambientale, con particolare riferimento proprio a questo tipo di energia (46,8%)”.
La Commissione europea punta molto sull’impegno delle piccole imprese per il raggiungimento degli obiettivi del 2020, tanto che nel recente studio “Pmi: affrontare la sfida verde” ha raccolto indicazioni e suggerimenti per aziende e attori politici. L’analisi di Fondazione Impresa citata in precedenza, conferma la recettività di questo settore verso le tematiche ambientali e la volontà di far parte di questo grande cambiamento: “La green economy – si legge nello studio – offre una duplice occasione alle imprese: quella di risparmiare (e liberare) risorse economiche, aumentando la propria efficienza energetica, e quella di approfittare delle occasioni imprenditoriali offerte da un nuovo mercato, quello eco”.
Dove ci sono opportunità però, si nascondono e si possono generare anche dei rischi e uno dei più pericolosi nell’era della green economy è probabilmente quello del greenwashing, ovvero il tentativo da parte di un’organizzazione di crearsi un’immagine positiva e virtuosa dal punto di vista ambientale, dando una “pennellata di verde” ai propri prodotti/servizi, attraverso colori, immagini e parole che evochino rispetto per l’ambiente. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di operazioni poco trasparenti e superficiali perché non basate su strategie, metodologie e pratiche ecologiche, affidabili e certificabili. Il greenwashing inganna sia i consumatori che le aziende: i consumatori perché li porta a scegliere prodotti non in grado di garantire ciò che promettono; le aziende perché rischiano di perdere il “green premium price” tanto ricercato.
L’effetto di una proliferazione di prodotti e aziende “greenwashed” é quello di creare un mercato “non credibile”, rischiando di compromettere alla base il presupposto fondamentale di qualsiasi relazione, commerciale e non: la fiducia.
I dati di Fondazione Impresa se sovrapposti a rischio green wash potrebbero farci dare una risposta affermativa alla domanda posta in apertura: SI, impresa e sostenibilità sono inconciliabili (l’affermazione è appunto un “ossimoro”).
In realtà tutti i dati, non solo italiani (1), ci confermano che “le bugie hanno le gambe sempre più corte” e che le imprese si stanno “finalmente” occupando di responsabilità e di sostenibilità in modo serio e concreto. Probabilmente lo fanno ancora più per una questione di immagine e di marketing che per una reale volontà e consapevolezza; ma la strada è sicuramente segnata. La sostenibilità è destinata a diventare un asset strategico per tutte le imprese e per tutte le organizzazioni.

(1) Oltre ai dati già citati di “Fondazione Impresa” ricordiamo:

Università Bocconi, Commissione Europea: progetto VerA & Great Place to Work
GFK – Eurisko e Sodalitas (ricerche 2010 e 2011)
Global Compact delle Nazioni Unite in collaborazione con Accenture (2010)
MIT Sloan Management Review in collaborazione con Boston Consulting Group (2010)
Accredia (2011)
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