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Legge sulla lobby. Migliorarla una battaglia (soprattutto) culturale

21/01/2022

Diana Daneluz

Dopo il primo sì della Camera dei Deputati alla cosiddetta “Legge sulla Lobby”, lo scorso 12 gennaio, si è tenuto un incontro sul tema, organizzato dalla Delegazione FERPI Lazio. Un confronto per raccogliere idee, suggerimenti, opinioni.

Abbiamo l’opportunità di cambiare la percezione sull’attività di lobbying e raccontare, con orgoglio, un importante segmento della nostra professione. Una vera e propria battaglia culturale da combattere insieme, soci ed ex soci FERPI, professionisti, docenti universitari, parlamentari” – così la Presidente di FERPI, Rossella Sobrero, intervenuta all’incontro online realizzato il 19 gennaio su iniziativa di FERPI Lazio e del suo Delegato, Giuseppe de Lucia, e moderato da Vincenzo Manfredi, Delegato Ferpi Public Affairs e Advocacy e ispiratore del confronto, su “La Legge sulla Lobby tra rappresentanza di interessi e democrazia” –, individuando altre due parole-chiave emerse dal dibattito: collaborazione e coordinamento. “Fino ad adesso non c’erano stati momenti così decisivi come questa prima lettura della Camera e quindi c’è bisogno, qui ed ora, di lavorare per le proposte di modifica e di farlo insieme a tutti coloro che vogliono – e sono tanti come ha dimostrato la larghissima e qualificata adesione a questo primo incontro – partecipare al progetto".

Il tema è quella della cd. “Legge Lobby”, la proposta di legge che ha ottenuto solo il 12 gennaio scorso, dopo 97 ddl rigettati, l’approvazione dell'Aula della Camera dei Deputati. Il testo è stato approvato a Montecitorio con 339 voti a favore, nessun contrario e 42 astenuti (Fdi e Alternativa), ed è ora all’esame del Senato. E che da subito ha riscosso commenti contrastanti.

Proprio per fare chiarezza e dare continuità ad un lavoro portato avanti negli anni da FERPI e da ultimo confluito nei contenuti dell’audizione del 30 giugno 2021, la scelta di un confronto sulla proposta di legge, una sorta di “chiamata alle armi” per ragionare insieme su quali modifiche sarebbe opportuno segnalare, e in fretta, nel suo percorso in Senato. Ospiti di Ferpi Lazio alcuni rappresentanti della professione del “lobbista” e non solo, come Eleonora Faina, Direttore Generale Anitec-Assinfo, Veronica Pamio, VP Rel. Esterne e Sostenibilità Aeroporti di Roma S.p.A., Pier Luigi Petrillo, Prof. Ord. di Diritto pubblico comparato Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, Fabio Bistoncini, Founder e Presidente di FB&Associati, Federico Anghelé, The Good Lobby.

Come ha ricordato Giuseppe de Lucia, la Federazione ha seguito da vicino negli anni l’attività legislativa sulla lobby, da ultimo con la partecipazione all’audizione del 30 giugno 2021 con un suo position paper. E tra gli obiettivi dell’appuntamento ha indicato la volontà di rovesciare, appunto, la narrazione corrente che tende ad associare l’attività di lobbying ad altre attività che con essa non hanno niente a che fare, dove i lobbisti sono definiti “faccendieri” o peggio. Laddove la tesi della Ferpi ribadita in ogni contesto è sempre stata quella di ribadire come l’ascolto dei rappresentanti di interessi sia un elemento necessario per il processo democratico. Questo accanto alla necessità di fare il punto su luci ed ombre di una proposta di legge e, se possibile, correre ai ripari. E di farlo attraverso l’apporto di qualificati panelist che operano in questo campo o lo studiano o hanno partecipato a diverso titolo all’elaborazione della legge.

Per dare il via alla discussione ha scelto di partire dalla posizione dell’OCSE, Vincenzo Manfredi: “Il lobbying può favorire la partecipazione democratica e fornire dati e analisi utili direttamente ai responsabili decisionali”, ma “l’assenza di trasparenza ed integrità potrebbe distanziare le politiche pubbliche dall’interesse pubblico in particolare se un piccolo gruppo che rappresentasse interessi forti utilizzasse la sua ricchezza...”. Un indizio di quanto il legislatore non ha recepito nella formulazione approvata.

A Pier Luigi Petrillo il testo sembra avere almeno il merito di definire finalmente cosa sia una “mediazione lecita”, in luogo della connotazione negativa che le viene sempre attribuita, perché indica quando una attività di mediazione si svolga in un perimetro di liceità. Nel contempo non gli sfuggono alcune zone che il legislatore ha lasciato invece in ombra: dalla definizione di “decisori pubblici” sembrano esclusi tutti i cd. burocrati, come i dirigenti generali di prima fascia, per cui l’attività esercitata nei confronti di queste figure potrebbe assumere connotati di illiceità; la scelta di alcune organizzazioni, come quelle datoriali e sindacali, per le quali non si applicherebbe la legge, una scelta che definisce ‘miope’. Ma nel suo complesso gli appare come il male minore, qualcosa che è meglio di nessuna legge perché almeno aiuterebbe i decisori pubblici ad individuare i loro interlocutori. 

La proposta di legge opera un effettivo riconoscimento della attività di lobbying, ma Fabio Bistoncini vi ritrova tutti i soliti pregiudizi che da sempre accompagnano il legislatore quando si accinge a scrivere di questa materia, in particolare lasciando in alto il decisore politico e non mettendo sullo stesso piano tutti gli interessi, con l’ammettere alla regolazione solo i portatori di interessi generali, da cui l’esclusione dei sindacati. Sottolineandosi poi un mancato equilibrio nel linguaggio, nella nomenclatura, quando si parla di diritti e di doveri. Negli obblighi si parla sempre di “dovere”, per quanto riguarda i diritti il verbo usato è sempre invece il verbo “potere”, lasciando alla libera disponibilità e volontà del decisore pubblico. Una legge che potrebbe essere utile forse solo per contrastare il sempre attuale “traffico di influenze”, ma un testo da emendare attraverso una battaglia da condurre in Senato, una battaglia soprattutto culturale.

I rischi di una eccessiva burocratizzazione dell’attività di lobbying li rimarca Eleonora Faina, a scapito di una normazione il cui obiettivo dovrebbe essere viceversa quello di semplificare per ricercare una qualità dei processi decisionali, rendendo trasparenti i percorsi attraverso i quali vengono assunte le decisioni, cosa sia rilevante per il decisore pubblico e per il portatore di interessi e cosa renda credibili i rapporti e possa migliorare il patto di fiducia fra eletti ed elettori. Le consultazioni al centro quindi, e così i modi e i tempi con cui si ingaggiano i rappresentanti degli interessi, su questo aspetto ribadendo con forza come anche le associazioni datoriali possano ed abbiano dimostrato di essere essere portatrici di interessi generali. Altro nodo da sciogliere poi quello delle “revolving doors”.

Tra gli intervenuti Federico Anghelé in rappresentanza di The Good Lobby, coalizione di trentaquattro, ad oggi, organizzazioni no profit della società civile che veicolano interessi collettivi, che si è spesa per il varo di una legge sul lobbying  non nell’ottica di arginare pratiche di corruzione, ma nella convinzione che sia uno strumento di autentica partecipazione democratica, da attuarsi secondo processi decisionali trasparenti,  partecipativi e inclusivi, con il definitivo superamento delle asimmetrie informative e di accesso ai decisori pubblici che proprio chi agisce per conto di questo tipo di organizzazioni conosce bene e subisce. E questo gli è parso da sottolineare come fatto particolarmente significativo nel segno di un cambiamento culturale e di una maturazione dell’opinione pubblica sul tema da salutare con ottimismo. Per questo la sua è una reazione di “moderata soddisfazione” per la legge al suo punto attuale, perché testimonia comunque la crescita della qualità del dibattito, anche se non in tutti i contesti. La battaglia condotta da The Good Lobby ha riguardato anche la democratizzazione dell’accesso ai processi decisionali, con esiti inferiori forse alle attese, ma è un punto di partenza che porta a ritenere che da un’alleanza tra responsabili dei public affairs, aziende ed organizzazioni no profit si potrebbero avere ulteriori e migliori risultati. Sulla esclusione di alcune categorie (sindacati e organizzazioni datoriali) ha voluto ricordare esperienze straniere di regolazione che hanno dimostrato, come nel caso dell’Austria, che laddove ci sono delle esclusioni così macroscopiche l’efficacia della norma nello scattare una fotografia della interazione tra i portatori di interessi e decisori pubblici venga decisamente meno. Quanto alle porte girevoli, sarebbe bastato arrivare a forme di mediazione basate sulla responsabilità, cosa che non è accaduta.  L’appello The Good Lobby, vista l’evidente comunanza di visione sul considerare il testo approvato “un primo passo” almeno dal punto di vista culturale, è stato quello di unire le forze approfittando della pur esigua finestra temporale aperta dal passaggio in Senato per provare ad ottenere la migliore formulazione possibile.  

Gli scambi fin qui hanno poi portato da più d’uno a definire la proposta di legge quantomeno un “compromesso al ribasso”, testo oggettivamente carente anche proprio dal punto di vista di una effettiva conoscenza dei meccanismi del mestiere. Ben venga quindi, ha detto ancora Manfredi, una comune azione di advocay anche dal punto di vista culturale. A parlare di compromesso al ribasso anche l’On. Emanuele Prisco,FDI, che non ha votato il provvedimento. Un’astensione motivata dalla non rispondenza del testo alla riconosciuta necessità di rendere trasparenti i processi decisionali, rendendo facile distinguere chi operi in maniera onesta e trasparente rispetto a chi invece lo fa con sotterfugi, nell’ombra. Un compromesso perché ha cercato di tenere insieme un approccio culturale ultra-giustizialista di forze politiche che vedono il torbido in ogni attività economica o pubblica amministrazione e nella politica e quello di forze politiche più liberale e attento alle garanzie e ai diritti. Scarsamente efficace, inoltre, per raggiungere l’obiettivo della regolazione, l’assenza di un vantaggio, di una premialità nel mantenere un rapporto trasparente con i portatori d’interesse. Manca, cioè, ciò che possa rendere conveniente iscriversi al registro. Se un decisore   politico aspira davvero a che tutti i rapporti siano trasparenti deve dare a chi va a parlare con lui un vantaggio a renderli trasparenti. In assenza di tale criterio di reciprocità resta senz’altro complicato far funzionare il sistema.  Tra le lacune della legge poi una riguarda i rappresentanti di interessi come dipendenti di società e l’altra l’attività di rappresentanza di interessi delle aziende straniere. Infine, dubbi sulla tenuta del registro in capo ad Agcom dove si è deciso di farlo depositare, mentre si era proposto di farlo al Cnel, organo costituzionale che in qualche modo rappresenta il mondo economico e del lavoro è giusto, idoneo come arbitro terzo. Sulla tenuta del registro presso il Cnel, peraltro, va sottolineato che era delle proposte contenute all’interno dell’audizione FERPI del 30 giugno 2021, come “casa dei corpi intermedi”. Infine, la norma che riguarda la partecipazione con il suo surplus di burocratizzazione sembra affatto realistica se applicata ai decisori politici locali.

Questa eventuale riforma così com’è spaventa, nella sua applicazione concreta in azienda, Veronica Pamio che ha voluto ricordare come l’attività di lobbying già abbastanza complessa e la eccessiva burocratizzazione-amministrativa a carico dei rappresentanti di interessi delle singole aziende o delle società di consulenza e in generale su comparti produttivi che hanno sofferto e soffrono per una crisi severa non potrà che avere un ulteriore negativo impatto.  E questa proposta di legge le sembra scontare un “peccato originale”, per cui pare che sia il portatore di interessi dover dimostrare di poter essere trasparente, di poter comunicare la propria attività. Quando la norma dovrebbe lavorare esattamente al contrario: è il decisore pubblico che deve rispondere al proprio elettorato e che deve rispondere delle proprie responsabilità, comunicando chi incontra, come e dove incontra, dimostrando che le consultazioni informali che mette in atto siano equilibrate. Invece i portatori di interessi svolgono un’attività lecita, e la proposta di legge in questa formulazione però li pone nella condizione di doverlo provare. E non è così, si veda l’esempio di Bruxelles, dove i lobbisti si iscrivono ad un registro, devono dichiarare tutta una serie di cose e sono procedure cui si sottopongono volentieri; ma poi è il decisore che indica i nomi delle persone e delle aziende che incontra e rende pubblici gli interessi che ascolta, anche se in consultazioni informali. In altre parole, la normativa così è complessa e contorta e certo non può aspirare ad assicurare trasparenza ed equilibrio nell’ascolto dei portatori di interessi. Che invece sono un apporto di valore per il decisore pubblico, anche quando vengono da soggetti privati, come ha dimostrato la recente esperienza della crisi sanitaria. Perché non è possibile che il legislatore non conosce tutte le sfaccettature dell’applicazione di una norma. 

La legge, inoltre, di fatto non considera che circa il 95% dei lobbisti non opera come consulente, ma come dipendente in un rapporto di lavoro di tipo subordinato da aziende ed organizzazioni, sottostante quindi a policy aziendali e ad una gerarchia. L’applicazione concreta della normativa ad ora esporrebbe – è l’aspetto sottolineato da Antonio Iannamorelli – questo tipo di lobbista al rischio da una parte di sanzione amministrativa e di processo penale e dall’altra di un possibile licenziamento. Inoltre, la legge parla di segreto professionale, ma non cita il segreto industriale e il segreto di Stato. Infine, secondo questa proposta, i lobbisti potranno acquisire documenti esclusivamente attraverso la 231 e quindi si vedono riconosciuti meno diritti di quanto la Costituzione stessa riconosce ai cittadini. Tra le criticità rappresentate dalla platea anche quella della durata delle consultazioni fissata in massimo 20 giorni: un tempo troppo breve per la maggior parte degli operatori.

Inoltre c’è il problema, o paradosso, che i rappresentanti istituzionali delle aziende a partecipazione pubblica potrebbero avere il divieto di confrontarsi con il decisore pubblico: nel considerare che proprio queste aziende hanno le strutture di relazioni istituzionali più grandi e importanti del Paese, l’esclusione dal testo del progetto di legge avrebbe come conseguenza anche quella di non consentire più di svolgere le naturali e necessarie interlocuzioni con i decisori (parlamentari e governo).

Il confronto sarebbe potuto andare avanti a lungo e l’impegno è quello di proseguirlo al più presto, eludendo il rischio di una veloce approvazione del testo così com’è da parte del Senato, in una corsa quasi paradossale dopo il tempo che ci è voluto per arrivare ad una prima approvazione. Si è abbozzata ieri l’intenzione convinta di arrivare un’alleanza di operatori del settore che si metta al lavoro, con collaborazione e coordinamento, ad una serie di emendamenti sulla base delle suggestioni emerse per arrivare ad una legge sulla Lobby che forse non tutti hanno voluto e vogliono, ma che ora si farà. Ed è bene che sia la migliore legge possibile.

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