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Ma, in realtà, chi rappresentano gli stakeholder con i quali dialoghiamo?

18/10/2005

Editoriale di Toni Muzi Falconi

Sono passati quattro anni da quando Alessandro Profumo, amministratore delegato di Unicredit, dal palco del Gruppo di Frascati e in pieno avvio della moda Csr, gettò il sasso nello stagno ponendo per primo in Italia la questione bruciante della rappresentatività reale degli stakeholder.Questione evidentemente fondamentale, ma che finora è stata tenuta sotto traccia per non disturbare il manovratore, poiché tutti noi della neo industria della Csr avevamo interessi più o meno inconfessabili ad evitare antipatici intoppi e inciampi alla crescita del fenomeno. 
E ora che quella moda è in fase di esaurimento... al punto che in una recente riunione di vertice il CIPR, Chartered Institute of Public Relations, ha deciso di non parlare più di Csr; parecchie imprese hanno lasciato cadere la esse fra corporate e responsibility; e dalle colonne dell'Economist  il capo mondiale della McKinsey ne ha decretato il fallimento ormai diventato un mero strumento di relazioni pubbliche; Active Citizenship Network guidato da Giovanni Moro ha presentato una ricerca sul tema e ne ha commentato i risultati al recente annuale Seminario di Frascati significativamente intitolato:Prendere sul serio la responsabilità sociale dell'impresa
Moro ha messo il dito sulla crisi generale della rappresentanza nella nostra società e segnalato che, nelle imprese, le azioni si pesano e non si contano; la selezione degli stakeholder è quasi sempre casuale; i sindacati sono considerati o rappresentanti esclusivi dei dipendenti o del tutto ignorati; e le relazioni con la comunità sono direttamente proporzionali al peso attribuito dall'impresa al fenomeno Nimby (not in my back yard).Ma, ha continuato il Presidente della Fondazione Cittadinanzattiva (Fondaca): senza rapporti con gli stakeholder non c'è cittadinanza d'impresa e senza stakeholder rappresentativi l'esercizio di responsabilità sociale è del tutto inutile.Fra i criteri di rappresentatività Moro ha indicato:°indicatori oggettivi:dimensioni, ambito territoriale, livello di attività, stabilità, risorse, trasparenza e accountability, campo di attività;°indicatori valutativi:esperienza, competenza, reputazione, indipendenza, fiducia, capacità di networking, organizzazione interna, capacità di rendere visibili interessi specifici, risultati passati, qualità dei progetti. 
Al contrario, Moro ha segnalato il rischio che prevalgano criteri occulti quali l'amicizia, i rapporti politici, la capacità di lobbying, la disponiblità di tempo e la presenza fisica e la prevalenza dei soggetti forti, con il risultato che anziché garantire equità si legittimano, rafforzandole, le disuguaglianze.Prendere sul serio la responsabilità sociale implica, ha continuato Moro, da parte delle imprese un passaggio dalla rappresentatività alla rilevanza, osservando alcuni principi base quali il diritto e non la discrezionalità; regole e criteri fissati pubblicamente; uso congiunto di criteri oggettivi e valutativi; norme flessibili; priorità alle procedure e definizione condivisa delle regole.
A loro volta,  linee guida virtuose imporrebbero una scelta dei criteri di rilevanza sì in base alle circostanze, ma con ampia pubblicità e con il coinvolgimento dei soggetti interessati, procedure di selezione pubblica, aperta e realizzata da organismi misti, con conclusioni del processo e ragioni delle scelte motivate e pubblicizzate, nonché prevedendo una procedura di appello contro la esclusione.Osservazioni giuste e sacrosante, quelle di Moro, ma che investono soltanto una parte del prendere sul serio la responsabilità sociale e la sua ricerca sulla rappresentatività degli stakeholder appare valida, se riferita ai rapporti fra impresa e non profit.Suggestioni stimolanti che però collegano le pratiche di Csr alla filantropia e al non profit, poiché presuppongono due verità che a me non paiono tali:
a) sono le imprese che si scelgono gli stakeholder e questo non è proprio vero poiché 'to hold a stake' implica che siano gli stakeholder a scegliere di esserlo, consapevoli delle conseguenze che l'attività dell'impresa produce su di loro e interessati ad una relazione con essa, amichevole o conflittuale che sia; 
b) non sussiste un automatico rapporto di scambio fra impresa e stakeholder nel senso che la prima finanzia o agevola attività del secondo: l'attività filantropica o di partnership in progetti di responsabilità sociale si limita solo al rapporto fra impresa e non profit e quest'ultimo è sicuramente importante ma non è certo fra i più rilevanti fra fra gli stakeholder dell'impresa.
Il rapporto di scambio con altri  e più importanti stakeholder (fornitori, azionisti, clienti, istituzioni, dipendenti e comunità locali) sono a loro volta soggetti ad altri indicatori di rappresentatività.
Mentre sullo sfondo, rimane ancora aperto il problema del principio di responsabilità/governance, nel senso che il management dell'organizzazione (privata, pubblica o sociale che sia) deve -sì- applicare processi decisionali inclusivi ma anche essere premiato/punito in base alle competenze dimostrate nell'esercizio di questi processi (stakeholder relationship management) dei quali deve essere pienamente responsabile e, in quanto tale, anche libero -fatti salvi alcuni principi generali e condivisi - di scegliersi interlocutori e modalità di consultazione, evitando le farraginose e inutile consultazioni tipo "conferenza dei servizi' che paralizzano la nostra amministrazione pubblica e cominciano surrettiziamente ad introdursi anche nel privato sotto l'altisonante e fuorviante nome di stakeholder engagement.Che ne dite? Ci abbiamo mai pensato seriamente a queste cose? Mandate le vostre opinioni alla redazione.
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