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Paolo D’Anselmi declina la Responsabilità a InspiringPR 2024

07/05/2024

Francesco Rotolo

Davanti ad un caffè mattutino, con il suo stile unico e calmo con cui è capace di lanciare strali improvvisi, molto taglienti, D’Anselmi ha accettato “la responsabilità di parlare della responsabilità”, uno dei concetti più delicati dell’edizione di quest’anno di InspiringPR. Un tema tanto più importante perché abusato, cruciale per la vita delle organizzazioni complesse e per quella delle persone.

Ti ringrazio, Paolo, per la tua disponibilità e per il tuo coinvolgimento. Quando proposi il tema della Responsabilità al Comitato Scientifico di Inspiring PR, sapevo che avrebbe richiesto una grande “responsabilità” per essere affrontato in modo non banale, e in queste settimane abbiamo ragionato a lungo su questo tema. Allora vorrei chiederti dell’inizio, almeno rispetto a questo percorso: cosa hai pensato quando ti è stata assegnata la parola ‘responsabilità’?
Quando mi è stata assegnata la parola responsabilità ho pensato: ‘Oh santo dio. E adesso da dove comincio?’. Poi mi sono detto che non importa da dove comincio, a un certo punto il motore si riscalda e i miei temi vengono fuori comunque. Il tiro si aggiusta nel procedere e comunque si arriva ai punti salienti. Inizialmente pensavo anche che ‘responsabilità’ è una cosa un po’ più chiara di ‘complessità’; poi però, anche ripartendo dagli spunti che avete condiviso con me e anche riprendendo i contenuti del libro, in queste settimane mi sono persuaso che ‘responsabilità’ è molto più complesso di quanto sembri a prima vista, specie nell’accezione più comune.

Tu ritieni che sia cambiato il significato della responsabilità? Se sì, come?
Non credo ci siano cambiamenti nel significato della parola e nel modo in cui è stata intesa nell’ultimo secolo, da Max Weber a oggi, ma ci sono importanti problemi nel modo ordinario con cui questa parola viene intesa, usata, declinata, applicata. Non osservare cambiamenti non significa dare per scontato che sappiamo di cosa si tratta e che usiamo bene il concetto. Per questo, credo, va chiarita davvero bene la parola responsabilità, anche perché - cambiamento o non cambiamento - mi sembra che tendiamo spesso alla irresponsabilità.

Cosa intendi più precisamente?
Prendiamo ad esempio la frase ‘Faccio il mio lavoro’, che si ascolta molto: spesso ignora che l’individuo dentro la organizzazione (il lavoratore) tende a maltrattare l’individuo fuori (il cliente); perché’ l’organizzazione fa sentire forti; oppure si ha più paura delle possibili reprimende dall’interno che del possibile danno arrecato al cliente, all’esterno. Ti faccio un altro esempio, nella frase: ‘lei ha l’obbligo di comunicare i suoi trasferimenti di domicilio’, detto da un lavoratore di una azienda telefonica (l’altro ieri), quella parola ‘obbligo’ mi è suonata tanto come un rigurgito organizzativo che stonava con i colori del negozio e le frasi incoraggianti dei cartelli come ‘siamo al tuo servizio’ e ‘soddisfiamo tutte le tue esigenze’.
‘Faccio il mio lavoro’ chiama quindi: ‘Prendo ordini’. Sia in azienda che nella amministrazione pubblica (sono argomenti che tratto nel libro), e nella società in genere, se non si tira un perimetro di responsabilità attorno all’individuo, rischia di finire tutto alla responsabilità del Presidente della Repubblica o del Papa. Il presidente Truman ne sapeva qualcosa, col suo celebre ‘qui finisce lo scaricabarile’.
E poi abbiamo 'ciascuno si assuma le sue responsabilità', frase vaghissima che non vuol dire niente. Pare più una minaccia che un richiamo alla definizione del chi deve fare cosa.
Cerchiamo modi per sentirci irresponsabili. Non fu bello l’esempio che ci dette il presidente Cossiga quando si dichiarò irresponsabile nelle sue funzioni. Che poi è un po’ quello che fa Trump, questioni di diritto costituzionale a parte. Il messaggio che arriva al cittadino non è costruttivo.

Il quadro che tu delinei è ampio, ma la questione – per citare il titolo della prima edizione del tuo libro, mi pare davvero “tagliente”. Se volessimo provare a chiarirla con un altro esempio, quale sarebbe per te?
Visto che hai citato la prima edizione, te lo dico con la parabola del Barbiere di Stalin. Il barbiere di Stalin non si sentiva responsabile di ciò che Stalin faceva, pur essendo al corrente di certi fattacci che Stalin gli raccontava dalla tipica sedia del barbiere. Eppure, il barbiere di Stalin dava tutto se stesso a Stalin, tutta la sua arte di barbitonsore si trasferiva nei famosi e carismatici “baffi di Baffone”. Possiamo sostenere che il barbiere, quindi, per quanto stava nelle sue possibilità, contribuiva al 100% al male che Stalin faceva. Paradossalmente, da un punto di vista individuale, potremmo ritenerlo tanto responsabile quanto Stalin. Ecco, io credo che siamo tutti un po’ “barbieri di Stalin”. Tendiamo a fare il male che possiamo e non pensiamo di essere responsabili di nulla.

Quanto dici ad un primo ascolto sembra molto radicale. Ma allora cosa ne è della responsabilità di aziende ed istituzioni? Così non rischiamo paradossalmente di “de-responsabilizzare” proprio i vertici, e quindi la società? Ti chiederei in tal senso ancora qualche esempio, se ti va.
Volentieri, ma ci avventuriamo su terreno minato. Droga o estorsione, cosa è peggio? Ieri mi è capitato in mano un libro in cui un magistrato dice che droga è peggio di estorsione. Nel mio libro io dico il contrario. E spiego. La droga ci vai tu a cercartela. L’estorsione viene lei da te. A me sembra che le responsabilità di chi chiamiamo vittima siano assai diverse. Occorre distinguere fra vittima e vittima. L’essere vittima attiene alla volontà della società di soccorrere, certo, ma propongo che resti ferma la distinzione a livello di responsabilità individuale e di effetto sociale. Ritengo infatti che l’estorsione sia socialmente più perniciosa della droga e sia responsabile del sottosviluppo economico, lavorativo e occupazionale.
Se non sono saltate mine finora, il discorso sulle vittime ci porta a un tema caldissimo: le vittime di incidenti sul lavoro, cui aggiungerei le vittime di incidenti stradali. In proposito noto che:
1.     si parla degli uni e spesso si ignorano gli altri;
2.     le vittime di incidenti sul lavoro sono difese in maniera amministrativa, con il focus su appalto e subappalto, con un approccio alla rappresentanza – un tema che so esserti molto caro - che definirei “amministrativo”;
3.     non si parla del lavoro, si danno per scontati passi del ragionamento sulle cause degli incidenti che scontati a mio parere non sono; sovente nel silenzio delle organizzazioni pubbliche preposte alla tutela del lavoro stesso.
E visto che ci siamo, tra le vittime sul lavoro metterei anche coloro che si ammazzano mentre qualcun altro sta lavorando a vigilare su di essi. Intendo i suicidi in carcere. Così come Total – la multinazionale del petrolio - mi dà conto nel suo bilancio sociale dei morti sul lavoro di tutta la sua filiera produttiva, subappalto incluso ovviamente, del pari mi aspetterei che chi è preposto alle carceri desse maggiormente conto di chi muore in carcere.
In questo percorso che ha portato al tuo intervento ad Inspiring PR, tu hai accolto il mio invito a partecipare al Focus Group sul tema della Responsabilità. C’è qualcosa che ti ha colpito maggiormente, qualcosa che hai portato con te da questa sessione?

Tre punti nel focus group mi hanno colpito in particolare:

 

1. Ad un certo punto si è detto: “i mezzi sono il fine” e si è parlato molto di ‘responsabilità’ della comunicazione’. Farei una sintesi di queste due locuzioni, al punto che oggi arriverei a dire: ‘responsabilità’ è comunicazione’. Possiamo elaborare maggiormente, ma forse basta ricordare, con Nanni Moretti: ‘le parole sono importanti , chi parla male pensa male e vive male’.

2. Mi ha colpito anche l’affermazione - se ho capito bene – che non tutto ciò che si fa con buone intenzioni in azienda è comunicabile o deve necessariamente essere comunicato, anche per evitare rischi di politically correct e altri fraintendimenti. Questo mi pare interessante e mi riporta ad uno degli otto criteri dell’eccellenza nel libro del 1984 “La ricerca dell’eccellenza”, che dette spunto ad una cultura che ancora oggi leggiamo nell’uso delle parole: ‘passione per l’eccellenza’. ‘Managing ambiguity and paradox’ era il precetto. Ci sono delle aree grigie e non possiamo razionalizzare tutto. Solo il dialogo e il ragionamento aperto e l’ascolto possono darci soddisfazione.

3. C’è un terzo punto del focus group che ho trovato molto interessante, a partire da una tua riflessione diciamo di natura linguistico-etimologica. Dizionari e vocabolari spiegano che ci può essere una responsabilità – che chiamerei ex ante - ed una responsabilità ‘ex post’ (di uno specifico fatto accaduto), ma non tutti propongono la accezione di ‘responsabile’ come fatto positivo ex post che è in realtà quella che poi spesso adottiamo quando per esempio diciamo cose come ‘comunicazione responsabile’ o ‘filiera responsabile’ o ‘comportamento responsabile’, o ancora espressioni come  “bevi responsabile” o “guida responsabile” o “gioca responsabile”.

Siamo alle battute finali. Volendo un po’ alleggerire, fermo restando il “peso” che ha questo tema, ti propongo di giocare un po’ con delle sinestesie. Che colore ha, per te, la responsabilità?
Azzurro carico. Azzurro nazionale. Nello sport ci sentiamo responsabili. Per me ci sentiamo responsabili solo nello sport.

Ancora: che musica sarebbe, per te, la responsabilità?
Mi vengono in mente diciamo così tre filoni, abbastanza diversi tra loro.
Nel primo, un po’ da giudizio universale, da fine del mondo, se vuoi, metterei i Carmina Burana o il Dies Irae (meno pop?), magari nell’orchestrazione di Mozart.
L’altro incarna per me l’approccio degli anni Sessanta. Comunque beat, positivo, non depresso, responsivo: in questo metterei Caterina Caselli!
Per il terzo penserei al Primo Movimento della Suite n. 1 per violoncello solo di Bach, un po’ nostalgico, assai riflessivo.

In chiusura, cosa vorresti che le persone si portassero a casa dal tuo intervento?
Che essere vittima è diverso da essere responsabili. Si può essere responsabili della propria condizione di vittima (che non vuol dire che la società può o deve lasciarti da solo). Ma certo occorre dare priorità e azione alle condizioni di vittima involontaria.
Vorrei che andassimo a casa con una revisione del portato del ’68 in cui i problemi erano a monte ed era ‘colpa del sistema’. Il sistema potrà pure essere irresponsabile, ma ognuno di noi ha margini di libertà, non dico per cambiare il mondo prima di cena, ma senz’altro per affrontare i propri guai. Adesso.

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