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Se il collegio diventa virtuale

23/04/2013

Nell’epoca dei social network, anche l’elettorato si trasferisce online e diventa il riferimento e la misura dell’operato degli rappresentanti. In questo contesto, controllare la _costituency_ sembra essere la priorità. Quali i possibili esiti di questo scenario e quale il ruolo del comunicatore politico? L’analisi di _Matteo Colle._

di Matteo Colle
Dopo anni di porcellum, in cui il problema è stato il progressivo perdersi del rapporto tra eletto e il suo collegio, tra elettore e il suo rappresentante, assistiamo, in questi giorni, a un fenomeno nascente. Siamo di fronte a una sorta di dematerializzazione del territorio e alla sua transustanziazione all’interno delle timeline di Facebook e Twitter. Insomma, in epoca di comunicazione intermediata digitalmente attraverso i social network, la timeline diventa la costituency dell’eletto, il luogo in cui riportare le proprie decisioni e prendere la misura del proprio operato. Il proprio collegio si manifesta in forma dei post e dei tweet di follower che chiedono, incitano, criticano.
L’incombere del collegio virtuale (perché dematerializzato, ma non meno reale), la velocità dello scambio simbolico che vi accade, l’impossibilità, o quasi, di prendere tempo per ridefinire lo spazio dell’interazione, sono fenomeni evidenti in queste ore concitate, in cui “La Rete”, ha assunto, dunque, il ruolo di protagonista del dibattito politico.
Allora viene da chiedersi se non avesse ragione Paul Virilio, quando, parlando non certo di Web e nuove tecnologie, ma della guerra in Kosovo, sosteneva che “Chi controlla il territorio lo possiede. Il possesso del territorio non riguarda principalmente le leggi ed i contratti, ma prima di tutto riguarda la gestione del movimento e della circolazione”. Ecco che controllare la velocità, il movimento e la circolazione, appare così la mission dell’eletto in relazione alla sua costituency dematerializzata.
E di uno scenario come questo due sono le possibili letture e, forse, i possibili esiti. La prima conduce diritti verso una politica che si muove a velocità incontrollata, senza riferimenti passati e presenti, in una sorta di comunicazione estatica ed isterica (sempre Virilio nei suoi più cupi avvertimenti), oppure, come credo, si può con pazienza recuperare, in rete e fuori, la logica della followership. La capacità cioè di costruire uno scambio simbolico riflessivo, dibattuto e ragionevole, che diventi in questo modo un capitale di senso per chi fa politica e per chi segue (follow) l’eletto.
In questo secondo e auspicabile esito, la professione del comunicatore politico può dire qualcosa, forse molto, di là dai facili miti delle digital pr e della reputazione on line.
Fonte: MR Blog
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